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 La Cappella Sistina - 500 anni dopo, si ripete la liturgia inaugurale seguita da Giulio II per gli affreschi di Michelangelo

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La Cappella Sistina - 500 anni dopo, si ripete la liturgia inaugurale seguita da Giulio II per gli affreschi di Michelangelo

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«È la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale». Così Benedetto XVI ha parlato questo pomeriggio degli affreschi della Cappella Sistina, durante la celebrazione dei Vespri in occasione del cinquecentenario della volta dipinta da Michelangelo. Il Pontefice ha voluto ripetere lo stesso rito con cui il 31 ottobre del 1512 papa Giulio II Della Rovere, alla vigilia della festa di Tutti i Santi, inaugurò la volta affrescata da Michelangelo in quattro anni, dal 1508 al 1512.

«Il grande artista - ha detto Ratzinger nell’omelia -, già celebre per capolavori di scultura, affrontò l’impresa di dipingere più di mille metri quadrati di intonaco, e possiamo immaginare che l’effetto prodotto su chi per la prima volta la vide compiuta dovette essere davvero impressionante».

«Da questo immenso affresco è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea - dirà il Woelfflin nel 1899 con una bella e ormai celebre metafora - qualcosa di paragonabile a un ’violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione”: nulla rimase più come prima», ha osservato il Papa, che ha ricordato anche le parole di Giorgio Vasari, in un passaggio delle “Vite”: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tantogiovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo».

«Lucerna, lume, illuminare - ha sottolineato Benedetto XVI -: tre parole del Vasari che non saranno state lontane dal cuore di chi era presente alla Celebrazione dei Vespri di quel 31 ottobre 1512. Ma non si tratta solo di luce che viene dal sapiente uso del colore ricco di contrasti, o dal movimento che anima il capolavoro michelangiolesco, ma dall’idea che percorre la grande volta: è la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale». «Quella luce – ha aggiunto il Pontefice - che con la sua potenza vince il caos e l’oscurità per donare vita: nella creazione e nella redenzione».

E secondo Ratzinger, «la Cappella Sistina narra questa storia di luce, di liberazione, di salvezza, parla del rapporto di Dio con l’umanità». «Con un’intensità espressiva unica - ha proseguito -, il grande artista disegna il Dio Creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’Intelligenza, da una Libertà, da un supremo atto di Amore. In quell’incontro tra il dito di Dio e quello dell’uomo, noi percepiamo il contatto tra il cielo e la terra; in Adamo Dio entra in una relazione nuova con la sua creazione, l’uomo è in diretto rapporto con Lui, è chiamato da Lui, è a immagine e somiglianza di Dio».

Secondo Benedetto XVI, infine, «vent’anni dopo, nel Giudizio Universale, Michelangelo concluderà la grande parabola del cammino dell’umanità, spingendo lo sguardo al compimento di questa realtà del mondo e dell’uomo, all’incontro definitivo con il Cristo Giudice dei vivi e dei morti»

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Il corpo a corpo di Michelangelo con gli affreschi della Sistina

La nascita vista attraverso gli schizzi riuniti in mostra a Roma per la prima volta. Una pagina dell’arte raccontata dal direttore dei Musei Vaticani e dalla direttrice di Casa Buonarroti

La nascita vista attraverso gli schizzi riuniti in mostra a Roma per la prima volta. Una pagina dell’arte raccontata dal direttore dei Musei Vaticani e dalla direttrice di Casa Buonarroti

Le fatiche di Ercole, e le fatiche di Michelangelo. Qualcosa di sovrumano hanno compiuto entrambi. Ma del semi-dio rimangono solo imprese mitologiche, mentre del grande Fiorentino quel rivoluzionario ciclo di affreschi della Cappella Sistina (edificio sacro ristrutturato da Baccio Pontelli nel 1477 – sotto Sisto IV – che riproduceva le proporzioni del tempio di Salomone a Gerusalemme) e terminato da Michelangelo nella sua completezza iconografica (la volta più la parete dietro l’altare) solo nel 1541, con il Giudizio universale, popolato da 447 figure. Meraviglia ai nostri occhi, questi primi affreschi della volta. E ben s’intuisce allora quanto ansioso fosse Papa Giulio II quando, il 31 ottobre del 1512, finalmente vide ciò che Michelangelo gli aveva impedito di sbirciare in corso d’opera (sotto l’ardito ponteggio costruito dall’artista vi era steso un enorme telo, non solo per evitare d’insozzare il pavimento). Una ricchezza di figure (oltre 430) sulla volta della Cappella, vero catechismo per immagini. Di una potenza folgorante, mai vista prima d’ora. Benedette furono quelle crepe che si aprirono nel 1504 saettando nel cielo stellato blu e oro della volta (decorazione ancora tipica nel ’400, e opera di Pier Matteo d’Amelia) e che richiese interventi strutturali, inducendo poi Giulio II (già tutto preso a farsi costruire dal Bramante – architetto del pontefice e nemico giurato di Michelangelo – la nuova basilica di San Pietro) a capovolgere il “problema”. Ripensando ex novo quella volta e affidando il 10 maggio 1508 a Michelangelo, scultore per eccellenza, un’impresa che lo vedeva abbracciare un’avventura pittorica alla quale era riluttante (ma per la quale ricevette dal papa quel giorno un anticipo di 500 ducati). Refrattario lo era per la sua inesperienza in materia di affresco, ma soprattutto era mosso dallo sdegno verso il papa, che aveva cambiato idea e stoppato la realizzazione del proprio monumento funebre, approvato nel 1505, per il quale l’artista aveva già scelto il marmo nelle cave di Carrara. Quella sarebbe stata per lui l’occasione della vita. Da qui la sua fuga arrabbiata a Firenze, con reiterati rifiuti a ritornare a Roma per obbedire al papa che lo richiamava al suo servizio. Ma la rinconciliazione avvenne a Bologna, e fruttò quel capolavoro. Rapporti tesi, tra personalità massime, e che Michelangelo riassume in una lettera del 6 maggio 1513 (conservata alla British Library). «Dipoi, tornando a Roma, non volse anchora che io seguissi la sepultura, e volse che io dipigniessi la volta di Sisto, di che fumo d’achordo di tremila ducati actucte mie spese, chon poche figure semplicemmente. Poi che io ebi fatto certi disegni, mi parve che riuscissi chosa povera, onde lui mi rifece un’altra allogagione insino alle storie di socto, e che io facessi nella volta quello che io volevo...». Carta bianca, dunque. E se le sue figure, come quelle di Leonardo, restano contemporanee, la ragione è tutta nella loro potenza mitopoietica, in grado di scatenare e creare miti.

Il viso come una tavolozza. Sembra quasi prevedere la curiosità dei posteri Michelangelo, quando scrive un sonetto autografo e sullo stesso foglio schizza se stesso mentre a testa in su, abbozza un personaggio simile a un fantasmino. «L’ho già fatto un gozzo in questo stento / come fa l’acqua a’gatti in Lombardia / o ver d’altro paese che si sia / c’ha forza ’l ventre appicca socto ’l mento / La barba al cielo, e la memoria sento / in su lo scrigno, e ’l petto fo d’arpia / e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia / mel fa, gocciando, un ricco pavimento». I colori della Sistina, l’azzurro del lapislazzulo, il rosso cinabro, il verde di marmo, di rame, le terre d’ombra, il giallo di Siena, che gli sbrodolano sulla faccia, impastandosi con il sudore, due versi che fanno capire la gloriosa fatica dell’arte. Uno straordinario documento di immediatezza narrativa, che abbina le parole a un disegno efficace quanto una Polaroid e anche auto-ironico. Questo documento è uno dei 26 eccezionali fogli (studi per la volta della Sistina e per il Giudizio universale) di proprietà dell’archivio della Casa Buonarroti di Firenze, scelti dalla direttrice Pina Ragionieri per l’importante mostra alla Camera dei deputati (Palazzo San Macuto, dal 31 ottobre al 7 novembre), su Michelangelo e l’immane impresa pittorica compiuta dall’artista, celebrando così i 500 anni della “scopertura” della volta, avvenuta appunto nel 1512.

La Creazione come un magma. Questo insieme straordinario di disegni preparatori (che ci trasmettono ciò che è “in mente dei”, paragonando il nostro artista a una divinità) permette di esercitarsi nell’accostamento tra questi e alcune figure degli affreschi della volta, seguendo ipotesi formulate nel corso del ’900 da alcuni eminenti storici dell’arte come Steinmann, Berenson, Wilde. Quel magma ribollente di figure della volta del Buonarroti nella Sistina (con episodi biblici) è una quasi nuova Creazione a sua immagine e somiglianza, pur tenendo conto dei precetti. E la traccia primaria, che pre-figura la gloria del colore, sono proprio quei segni a matita nera, rossa, carboncino o penna tracciati sulla carta. «È la prima volta che noi facciamo una mostra sulla Sistina e avendo disegni che sono capolavori, parliamo di tutta la Cappella, compreso il Giudizio universale, iniziato tra il 1535 e il 1536 », dice Pina Ragionieri curatrice di questa mostra Michelangelo e la Cappella Sistina nei disegni della Casa Buonarroti (prodotta e organizzata dall’associazione Metamorfosi). «Giulio II decide un intervento sulla volta, rendendosi conto dell’inadeguatezza ormai di questo luogo (qui viene fatto tuttora il conclave) e che lui vuole abbellire in altro modo. Michelangelo è costretto dal papa a cominciare i lavori alla Sistina. Inizialmente pensava di potersi far aiutare dal Granacci e dal Bugiardini, suoi sodali a Firenze, ma nessuno di loro raggiunse il ponteggio. Michelangelo ebbe subito la consapevolezza di dover affrontare quel lavoro da solo, lo aiutarono solo dei garzoni per la manovalanza. Lui capì di non poter trasmettere la grandiosità del progetto ad altri pittori. Michelangelo, in una sorta di esaltazione solitaria, che gli causò anche danni fisici, rivoluzionò la storia dell’arte. Da quel momento il passato viene spazzato via d’un colpo. Si “spezzarono” tutte le raffinatezze artistiche del ’400. Arrivando a una concezione spaziale e pittorica quasi tridimensionale, assolutamente innovativa», conclude Pina Ragionieri. La committenza di Giulio II è in fondo la chiave di volta di un nuovo pensiero. Il papa, affidandosi allo scultore che aveva scolpito la Pietà e che aveva alzato il David a Firenze in piazza della Signoria, fece un gesto intuitivo. Capì che quell’artista poteva raggiungere vette altissime, inviolate. La storia ci ha consegnato l’immagine di Giulio II come di un papa combattente, politico, i suoi contemporanei dicevano «ha più dimestichezza con la spada che con l’aspersorio» e la sua iconografia è rimasta legata all’assalto della Rocca della Mirandola, in mano ai ferraresi alleati dei francesi, durante la guerra del Papato contro la Corona di Francia. «Ma non si divertiva ad attuare la politica della guerra, suo preciso obiettivo era che la Chiesa di Roma affermasse il suo messaggio, e per fare questo doveva anche essere una potenza politica e militare affinché la voce del Vicario di Cristo potesse essere ascoltata e rispettata da tutti», spiega il professor Paolucci, direttore dei Musei Vaticani. «Fu un papa che voleva essere temuto e ascoltato per altre ragioni, ma il suo richiamare gli artisti fu un progetto politico di grande gusto e di grande intelligenza. Il 1508 è un anno fondamentale, spartiacque, per la storia dell’arte. Giulio II chiama a Roma due artisti, Raffaello e Michelangelo. Il primo è un ragazzo di appena 25 anni, ma enfant prodige, protetto da Bramante; a Firenze si era già distinto per cose mirabili come la Madonna del Cardellino. E lui lo volle per decorare il suo appartamento privato, ossia le Stanze», prosegue Paolucci. «Giulio II della Rovere non voleva più abitare nell’appartamento del suo predecessore, Alessandro VI Borgia (lì c’erano gli affreschi del Pinturicchio). Giulio II aveva tante qualità, specie quella di non essere ipocrita: odiava il suo predecessore. Una volta ebbe a definirlo “giudeo, marrano e circonciso”, e lo riteneva anche sodomita e simoniaco».

Rivolgendosi a Raffaello per abbellire il suo nuovo appartamento (lasciando quello affrescato dal Pinturicchio, troppo “antiquato”), Giulio II opta per una svolta epocale. Nello stesso 1508 dà l’incarico a un giovane uomo di 33 anni, Michelangelo, di dipingere la volta della cappella Sistina (che già lo zio Sisto IV aveva fatto affrescare lungo le pareti con le storie di Cristo e di Mosè, opera di Botticelli, Signorelli, Perugino...). «In quell’estate del 1508, nasce la grande arte d’Occidente. Con un papa tutto proiettato in questo mondo, ma che fa una scelta estetica e intellettuale carica di futuro. Picasso guarderà ancora a Raffaello, e Moore a Michelangelo», afferma Paolucci. «Michelangelo inventò la figura dell’artista contemporaneo, che è dismisura, che è incontentabile, che ha l’eccezionalità del fare, dell’essere. Sono convinto che anche i dati caratteriali del suo essere misantropo, collerico (doveva essere sgradevolissimo sul piano umano) da lui enfatizzati servissero a costruire la sua eccezionalità. Prima di Van Gogh che si taglia l’orecchio, c’è Michelangelo. Con lui nasce la tipologia dell’artista contemporaneo, imprevedibile anche nei suoi comportamenti privati. Michelangelo lo definiremmo oggi un intellettuale di sinistra. Ebbe la fortuna di avere dalla sua parte un formidabile divulgatore come Vasari, che costruì il mito di Michelangelo». Giulio II rinunciò a “dettare” il programma iconografico di questo ciclo di affreschi. Con grande intelligenza, non mise né briglie né confini. «Michelangelo fa quello che vuole, s’inventa come meglio raffigurare il libro della Genesi, compartisce la volta come gli pare. Michelangelo comincia da dove finisce la storia del Genesi, cioè da L’ebbrezza di Noè. Proseguendo ha problemi con il Diluvio universale: non si era ancora impratichito nella tecnica, e deve rifarlo. E Dio solo lo sa quanto dev’essergli costato ricorrere al consiglio di colleghi artisti fiorentini come il Bugiardini e il Granacci... Ma poi impara velocemente la tenica del buon fresco, certo all’inizio è un “apprendista”», spiega il direttore dei Musei Vaticani.

Un duello psicofisico. Tra Michelangelo e la volta della Sistina avviene una sorta di corpo a corpo, di duello fisico e inventivo in totale immedesimazione, durato quattro anni (dal 1508 al 1512), 1.010 metri quadrati di pittura, centinaia e centinaia di figure. Dipinge piegato e rattrappito sul ponteggio, nel gelo dell’inverno e nella calura estiva. Tutta l’arte di Michelangelo è sempre una sfida, anche quando progetta l’architettura. «Quando si scopre la volta il 31 ottobre 1512, le cose appaiono irrimediabilmente superate per sempre, la storia dell’arte ha cambiato radicalmente pagina, il manierismo comincia da qui. Dopo la volta della Sistina, il mondo delle arti in Europa non sarà più lo stesso: Michelangelo propone agli artisti un repertorio nuovo di idee, di prospettive, viene detto che quando si scopre la volta della Sistina è come se un torrente montano di inaudita forza si precipitasse sulla storia dell’arte sconvolgendola. E ne risente persino Raffaello che non sarà più lo stesso dopo aver visto questi affreschi: una certa evidenza muscolare, plasticità compositiva s’insinua anche nella sua pittura», commenta il professor Paolucci. Lo spirito religioso di Michelangelo è tutto racchiuso nella teologia del corpo. Al contrario di Raffaello a lui non importa del paesaggio, nel suo cielo non ci sono nubi, montagne, profondità prospettica. Il vero paesaggio è il corpo. Gli Ignudi della volta non diedero scandalo: erano poco vistosi, al confronto di quelli che avrebbe dipinto decenni dopo nel Giudizio. Ma c’è qualcosa che lascia davvero stupiti, quando si osserva l’ottava campata. Nella raffigurazione della creazione degli astri, nostro Signore svolazza con le natiche ben in vista. «In effetti è una visione inusuale, difficile da spiegare. Mi diverto a pensare a un lazzo tipo “amici miei”. Michelangelo, talvolta capace di ordire scherzi con i suoi amici Granacci e Bugiardini, magari avrà detto: “Scommettiamo una cena che io nella Cappella del papa, dipingo il sedere di Nostro Signore?”. Così è stato e Giulio II non ha fatto una piega. Profanazione? No, intelligenza e libertà mentale di un grande papa», commenta Paolucci. «Il vocabolo stilistico di Michelangelo è il nudo (soprattutto maschile), come per Fontana lo sono i tagli. Quando decenni dopo la volta venne scoperto il Giudizio universale, i benpensanti dell’epoca si scandalizzarono: una tale esibizione e concentrazione di nudi come in quell’affresco non si era mai vista prima. Se ne parlò addirittura in una sessione del Concilio di Trento. Qualcuno addirittura propose di buttarlo giù o di cancellarlo. Ma nessuno, finché fu vivo Michelangelo, osò toccarlo», spiega Paolucci. Arrivarono poi i “braghettoni” dipinti da Daniele da Volterra, amico di Michelangelo fin sul letto di morte, e con quelli salvò il capolavoro.


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